Matteo Fraboni Quintet - “This Is My Music”
Lo spirito irrequieto, a tratti positivamente naïf, che contraddistingue l’esordio del Matteo Fraboni Quintet è una presenza costante e indiscreta, che resta per gran parte del tempo sottotraccia per affiorare in superficie quando l’ispirazione ne richiama la presenza.
“This Is My Music” è un’intrigante sfida alle regole del jazz, espressa attraverso un linguaggio che non appare mai ovvio, scontato; ma che, al contrario, si nutre di uno spirito urbano con i suoi momenti notturni (“Dear Friend” e la splendida cover di Johnny Medell “A Time For Love”) e i passaggi in cui la metrica rincorre il movimento nervoso dei nostri giorni, come in “7 On 4 (Exit Whole)”.
Non si tratta certamente di avanguardia, bensì di un metalinguaggio organico da ascrivere ai movimenti del giovane jazz europeo (vengono alla mente Marcin Wasilewski, Tord Gustavsen e il compianto Esbjörn Svensson) che impiegano la grammatica jazzistica per combinare degli accenti fusion, rock e classici e assimilarli in un discorso il più possibile armonico e compiuto.
Il punto di partenza del batterista Matteo Fraboni è certamente velato di accademia, dati gli inizi alla Berklee di Perugia e gli studi con personaggi di spicco della scena jazz del Belpaese, come Fabrizio Sferra o Massimo Manzi. Le tracce di “This Is My Music” risentono indubbiamente di questo percorso ma è quello spirito curioso di cui sopra a smuovere le geometrie e a rendere imprevedibili i momenti meno riflessivi.
C’è, ed è forte, un’impronta innegabilmente asiatica – rintracciabile in special modo nell’uso di alcune scale (soprattutto indiane) – ma sono riconoscibili anche richiami alla tradizione africana e a un percussionismo non filtrato dai canoni del jazz occidentale il quale, a sua volta, chiude un ideale cerchio geografico portandoci nella Cuba del Changuito con cui Fraboni ha avuto modo di confrontarsi in passato.
"UmuntuNgumuntu" è quasi sicuramente il momento più audace: viene alla mente l’ultimo Mulatu Astatke, quello dello splendido “Steps Ahead”, del disco di un’ingenua maturità figlia, sì, dell’Ethio Jazz, ma anche e soprattutto dell’ibrido che esso stesso ha generato nel tempo.
Sembra di sentire “Assosa” o il belafon di “Green Africa”, e invece è solamente un jazz di preziosa fattura, suonato partendo dalle leggi non scritte del bop per arrivare a qualcosa di nuovo e diverso. Il sax di George Garzone (“the greatest sax player in the world”, secondo alcuni) si trova perfettamente a suo agio in un contesto che richiama i suoi The Fringe nel rapporto con la melodia nei momenti meditativi come in quelli maggiormente dinamici.
“This Is My Music” è un’opera introduttiva che comprende più dell’ora scarsa entro cui è racchiuso. E’ il dinamismo imperfetto di un jazz che non stravolge le regole, ma che al contempo si tiene a debita distanza da esse e dalla tradizione.
A volte occorre dimenticare ciò che si è imparato per poter davvero innovare e, il giorno in cui Fraboni avrà completato il processo di distacco dalla propria zona di conforto, parleremo di un piccolo grande capolavoro.