The Heliocentrics - “13 Degrees Of Reality”
Se il tessuto armonico degli Heliocentrics prendesse forma, ci troveremmo dinanzi un disguido, un fraintendimento ma soprattutto colori violenti finemente poggiati su trame di un anarchismo sonoro all’apparenza illogico e caotico. Il quiproquo nascerebbe sicuramente dal fatto che le definizioni, nobile forma di sintesi dialettica propria dell’umano, poco si confanno alla complessità cangiante di alcune forme artistiche. La musica, ad esempio, la descriviamo ma non la vediamo e non la comprendiamo appieno. Non tutta, non sempre. Un valido contributo all’errore ce lo regala il peccato veniale di voler racchiudere nella parola “‘jazz’ lavori come questo “13 Degrees of Reality”. Se non lo facessimo, d’altronde, non richiameremmo l’attenzione di una pur larga porzione di pubblico. Ma facendolo ne tradiamo scientemente le aspettative. Questo per dire che gli Heliocentrics sono una grande band.
Chi li avesse conosciuti attraverso le collaborazioni con due mostri sacri come Mulatu Astatke e Lloyd Miller è perdonato: l’estetica sonora che accompagnava quei lavori era quasi totalmente limitata al jazz ma il fine era indubbiamente nobile. “Inspiration Information” (2009), infatti, si piegava all’ispirazione della stella più luminosa del firmamento Ethio-jazz e lo faceva con una dolcezza remissiva, quasi timida che lasciava che Astatke brillasse di artistica prepotenza.
Possiamo dunque definire “13 Degrees of Reality” il vero e proprio album di debutto per la band di Malcom Catto? Ufficialmente potremmo, se non fosse che il precedente “Out There” del 2007 risentiva in maniera fin troppo spiccata dell’influenza di DJ Shadow, di cui gli Heliocentrics erano stati la band d’accompagnamento in ben due tour. Insomma: tre album, tre personalità di spicco. Stavamo rischiando di perdere una delle band più interessanti del panorama europeo. Quest’album corre in soccorso della carriera degli Heliocentrics e lo fa in maniera decisa, quasi a segnare un solco tra un “‘prima’ (glorioso ma vago) e un “‘dopo’ incerto ma dannatamente interessante.
Sono passati sei anni e quella che una volta era un’anima ora hip-hop, ora world (con Lloyd Miller quale maggior responsabile), è oggi un preambolo d’avanguardia che parte, è vero, dal jazz, ma che attraversa le correnti del funky, della fusion e del rock per arrivare a una musica dalla natura indefinita e quindi perfetta. La sezione ritmica, come prevedibile, tira le fila di un incedere dai tempi complessi ma non per questo privi di quella sensualità su cui poggiano melodie che guardano lontano, all’Asia e all’Africa, per colorare l’intricata matassa armonica. Questa eterna tensione è introdotta sin da subito dal contrasto tra le parole di George Bush Senior (“a new world order”) e quelle di Malcolm X a definire l”American Dream’ un incubo.
Tensione, dicevamo, ma è e resta un agente con una funzione strutturale e non di disgregazione. è lo stesso nervosismo che guida l’elegante violenza dei droni su “Wrecking Ball” o il respiro sommesso di “Eastern Begena” a costituire quel tessuto variegato che riporta a Sun Ra e al kraut rock tra le mille altre, dissonanti cose. “13 Degrees of Reality” è il flauto di Jack Yglesias su “Collateral Damage”, è la kalimba di “Black Sky”, e il fuzz di “Mr. Owusu, I Presume?”. è un numero indefinito di cose che si scorgono solo dopo aver sottratto una a una le divergenze stilistiche che compongono quel tessuto che altro non è se non un disguido e un fraintendimento che sono una trama e un ordito tesi e colorati tra l’Est e il Sud, il drone e il jazz, il prima e il dopo, il sogno e l’incubo, rumore e silenzio.