Napoletano, clochard a Londra: i rifiuti? Voglio ricordare solo pizza e mandolino
Originario di Fuorigrotta, dopo traversìe è un homeless. «Non sono tornato più sul Golfo. Ma preferisco non parlare di monnezza»
LONDRA - Guardi i palazzi tra Shadwell e Limehouse arrampicarsi quasi fin sopra le rotaie del treno senza conducente che dal centro porta fino alla periferia orientale e non puoi smettere di cercare un segno di vita tra le poche lenzuola stese e le biciclette lasciate sugli androni. Il vetro si copre nuovamente di pioggia e la mano si muove istintivamente a creare spazio tra le gocce che sembrano correre, senza speranze di raggiungerlo, dietro al treno lanciato verso la “dimora” di Luciano.
La “dimora” é un pezzo di cemento tra una via e l’altra o la rientranza di un palazzo - fate voi – dentro cui trova spazio la vita e la storia di un uomo che tradisce le sue origini italiane non appena mi saluta. Gli occhi si socchiudono per un secondo o due, le mani fanno come per indicare me e dalla bocca sepolta sotto una coltre di barba nera fuoriescono due parole appena che valgono come un passaporto aperto sulla strada. - Come stai ? Io sto bene; lui lo vedo seduto per terra e la schiena poggiata al muro mentre chiude il quotidiano gratuito della mattina per accogliermi meglio nel suo spazio vitale. La storia di Luciano sarebbe lunga da raccontare ma andrebbe ascoltata almeno una volta anche solo per capire che fine ha fatto un pezzo d’Italia che sembra ormai perso tra le nebbie degli anni.
La sua famiglia aveva un piccolo commercio di scarpe e un negozio nei pressi di Tottenham Court Road. Gli incassi andavano bene fino a quando la guerra non si portó via la loro dignitá lasciando che nessuno comprasse piú dai fascists. Il trasferimento a Bedford (cittadina del Bedfordshire a nord di Londra) fu traumatico ma il lavoro nelle miniere di ferro e carbone lo fu ancora di piú. 15 anni all’inferno e la voglia di tornare a Londra determinato a riprendersi una vita nella cittá che lo aveva visto crescere e andare a scuola. Tutto bene fino a quando qualcosa di nuovo non andó come doveva e Luciano si ritrovó con “il sedere per terra e le spalle al muro”: era diventato un homeless, un clochard, un senzatetto. Un barbone. La comunitá italiana di Bedford nel frattempo era cresciuta e, grazie ad una forte immigrazione dal sud Italia negli anni 50, era ora la spina dorsale dell’intera cittadina. La famiglia di Luciano era originaria di Fuorigrotta. Contadini: un pezzo di terreno e la fame che li spinse tra le nebbie londinesi dove scoprirono che la loro disperazione era quella di migliaia di altre persone fuggite prima che fosse troppo tardi.
La guerra, la miniera, il ritorno sui suoi passi alla ricerca di quello che la vita gli aveva tolto: piccoli lavoretti come muratore e l’amore per una ragazza giamaicana che gli regala un figlio che muore per overdose alla fine degli anni 70. Di nuovo una guerra – stavolta col dolore – e il divorzio che lo porta all’alcolismo da cui uscirá “quando la morte mi prenderá sottobraccio e vorrá mostrarmi l’eterno buio”. Eppure Luciano ride.
Ride e lo fa di gusto quando gli chiedo se é piú tornato a Napoli da quel lontano 15 maggio del 37 data in cui, poco piú che poppante, lasció per sempre la sua cittá da una stazione. La risposta mi dá un brivido lungo la schiena quando capisco che la paura di non trovare piú la Napoli di un tempo sia una certezza che mette paura e inibisce ogni mia risposta al punto che quasi cambio argomento e gli chiedo cosa si aspetti ogni giorno quando vede il sole sorgere oltre la ferrovia e la gente che corre a lavoro sotto la pioggia cosí come sotto il timido sole londinese. «Guardo, non chiedo e loro non mi vedono. Conto le ore e scrivo poesie. Mangio quando posso e bevo appena posso. Io non sono un italiano dimenticato; io sono un italiano che ha vissuto. Ho letto tutto da qua su, vedo le cose da una distanza di sicurezza e ho imparato a giudicare senza prendermela a cuore. Il mio mondo, qui come lá, non esiste piú. É stato mangiato dagli anni e lo ritrovi solo se ti metti a giocare al Giovane Speleologo e trovi un po’ di Napoli nei figli di mio figlio che, pelle scura e un lavoro in banca, a volte tra di loro parlano napoletano in maniera ridicola ma dolce. Io invece me lo sono dimenticato». Non mi sono neanche accorto di essermi seduto quando una signora sbuca da dietro con un piccolo vassoio di plastica verde e del cibo che deve essere il piú buono del mondo. Le parlo, lei risponde, lui la ringrazia, lei saluta e se ne va. Luciano mi sorprende con pensieri lucidi e corretti nell’esposizione a volte un pó antiquata ma chiara e precisa. Non sapessi dove mi trovo o chiudendo gli occhi per un attimo potrei pensare di parlare con chi la vita l’ha passata al riparo dietro un tavolo chino sui libri. Invece le sue mani, sebbene sfiorino l’aria leggere mentre mi parla, hanno il colore opaco di chi le ha usate per campare alla meglio per una vita e che ora le lascia riposare, almeno loro, a riparo dalle fatiche quotidiane.
«Vorresti che ti dicessi cosa penso della spazzatura, della munnezzae del governo italiano. Invece non ti dico niente e me lo tengo per me. Vivo nell’illusione in cui vivono gli stranieri e mi godo una realtá di pizza, mandolini e tramonti sul lungomare. Non sono pazzo né serve che mi ubriachi per chiudere gli occhi e ricordare quando da bambino mi affacciavo sul porto e immaginavo mondi lontani nel tempo e nello spazio. Oggi che vivo in quella dimensione non ho nessuna voglia di tornare indietro. E forse neanche ne avrei piú la forza.“ Oggi piove e fa freddo a Londra ma l’estate puó essere meravigliosa se dal Tamigi ti giri a guardare verso Saint Paul in una giornata di sole e scopri che se socchiudi di poco gli occhi potresti essere dovunque. Poco importa se la materia non é cosí forte da poter imprigionare il ricordo che, lentamente, svanisce come una stazione una mattina di maggio.