The Body - “Christs, Redeemers”
Perennemente impegnati nella creazione della perfetta colonna sonora per il disagio, il duo di Portland composto da Chip King e Lee Buford non smette di sconvolgere attraverso la propria musica. Senza riferimenti, toccando sonorità folk (“Empty Hearth” sullo splendido debutto), violentando lo sludge, spingendo il doom oltre le derivazioni funeral e psichedeliche per ritrovarlo, filtrato da un’estetica minimalista, a brandelli tra urla e mantra.
Se con “All The Waters Of The Earth Turn To Blood” i The Body avevano proteso il suono verso un crossover che partiva dagli Eyehategod per finire ai Lightning Bolt di “Beautiful Rainbow”, con le uscite intermedie – una su tutte il confuso Ep “Master, We Perish” – l’anima noise del duo aveva completamente rovesciato gli equilibri. Il rumore aveva infatti finito per prevalere sul resto, schiacciando le divagazioni doom sotto il peso di una disciplina che si rifaceva ai primi Swans, più che a qualsiasi altra cosa.
I nuovi The Body sono una “Night Of Blood In A World Without End” che sembra riprendere la “Noon Hill Wood” di – nientemeno – Richard Skelton da una prospettiva comunque vicina a quella dei Sunn O))) e di tutta la corrente (“post-doom”?) a cui King e Buford fanno riferimento.
L’Assembly Of Light Choir è ancora una volta un co-protagonista che ritroviamo in vari punti dell’album, ma sebbene la magia e la sorpresa della prima traccia di “All The Waters…” resti un qualcosa d’irripetibile, il contributo delle voci femminili rimame comunque fondamentale. Lo si trova a bilanciare il nichilismo sonoro di brani come “Denials Of The Species”, la cadenza lenta e inesorabile di “An Altar Or A Grave” o il tripudio psichedelico di “I, The Mourner Of Perished Days”, che racchiude l’essenza di un album sicuramente convincente ma che non mira a scombinare gli equilibri come fece il debutto.
Ad esempio, quello che fino a poco prima era un contrasto epico e poetico, ovvero la contrapposizione tra polifonia vocale femminile e la crudezza dei droni elettrici, è oggi una simbiosi che, purtroppo, funziona a meraviglia, che appare studiata e quindi priva di spunti originali. La vera forza, stavolta, è dunque la pura estetica dell’album, la fruizione immediata che, vivaddio, resta estremamente godibile e, comunque, al di sopra della media delle migliaia di band che ingombrano il già inflazionato panorama della musica estrema mondiale.
I The Body riescono, ancora una volta, a scrivere brani assolutamente fuori dall’ordinario per quella nicchia di pubblico che riconosce a band come la loro, agli Horseback o ai Locrian, la capacità di sintesi di suoni che altri accennano e sfiorano solamente. Da questo punto di vista, ma solo da questo, “Christs, Redeemers” è una perla indiscussa. La potenza narrativa suggerita dal cantato in falsetto, le ripetizioni, i suoni prolungati all’infinito e l’asfissia sonora sono qualità rare. Il sangue e la rabbia che li muovono sono gli elementi da cui certa musica non potrà mai prescindere.