Ulver @ Circolo degli Artisti (Rome, IT)

Una band irrequieta, perennemente in bilico tra forma e sostanza, coerenza e futuro, gli Ulver scendono in Italia con un set imprevedibile e coraggioso.

Le prime note sono quelle di uno stadio semivuoto, appeso a una trave da cui penzola il telo bianco su cui è proiettata una partita dall’esito già scritto, nelle ore finali di un weekend romano stranamente libero dalla pioggia. Per i lupi norvegesi bisogna attendere ancora un paio d’ore, e la piccola folla raccolta intorno all’ultimo carico di magliette e album del tour restituisce l’immagine di un pubblico stranamente farcito di quindicenni in uscita-premio, barbe curate e vecchie facce in ora d’aria dagli anni novanta. 

L’improbabile traccia funky proposta in noioso loop dal Circolo muore un’ultima volta alle dieci e trenta, quando un lungo intro di campane e catene, nervi e buio introduce England tra le immagini di “2001: Odissea nello Spazio” e il silenzio di una sala ora finalmente gremita. Un set inaspettato perché stranamente organico e percussivo che vede un Daniel O’Sullivan al centro dell’improvvisazione relegando Kristoffer Rygg a un ruolo da comprimario dell’apparato sonoro. Almeno fino a quando la sua voce non torna al centro dell’intricato dialogo tra basse frequenze ed elettronica sulla stessa England o, poco più tardi, su quella Nowhere/Catastrophe che chiuderà l’esibizione prima del bis con una splendida Eitttlane completamente stravolta dalle ripetizioni e le derive noise. In mezzo, tra una traccia che sembra di riconoscere e l’altra, ci sono forse i veri Ulver di oggi: una miscela impura di glitch, trip-hop, post-rock e tutto quello che viene generato da un’ispirazione ibrida ed egregiamente confusa. 

I trucchi del mestiere (i crescendo, le pause, le ripetizioni) tengono a galla una scaletta che trascura completamente album come “Shadows of the Sun” e le tracce più note di Wars of the Roses e Blood Inside a favore di brani come Doom Sticks o Tomorrow Never Knows, che permettono e giustificano le sortite improvvisative – a tratti psichedeliche – del set. L’anima classica della band – un Tore Ylwizaker in camicia bianca stirata di fresco, gilet e cravatta – chiude il cerchio sonoro partito dalle percussioni, proseguito nell’elettronica e completato dai tasti – ora di un pianoforte, poi di un synth – colpevolmente relegati a un ruolo di second’ordine. Eppure il segreto degli Ulver degli ultimi anni è proprio nel dinamismo sonoro e nelle apparenti contraddizioni stilistiche e di pensiero: il minimalismo su disco e l’esagerazione dal vivo; la ricerca del silenzio e l’attrazione per i droni di Sunn O))) e affini. L’esito era già scritto, ma se la sostanza è una combinazione audace e insperata, il risultato è sublime.

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