Dennis Rea - “Views From Chicheng Precipice”
Originario di Seattle, ma con l'ispirazione proveniente dall'Est del mondo, Dennis Rea disegna un tributo alla musica asiatica immergendone i colori in un contesto tipicamente occidentale, il cui assetto sonoro sviluppa trame ardite su immagini tipicamente free jazz.
Autore dello splendido libro "Live at the Forbidden City: Musical Encounters in China and Taiwan", in cui racconta la propria esperienza di musicista occidentale in Asia negli anni che vanno dal 1989 al 1993, Rea continua la sua ricerca nei territori cari alla tradizione orientale riuscendo nell'impresa di tenersi ben distante dai vuoti sofismi della world music. Allo stesso tempo però si nota da parte sua uno spirito distaccato, quasi naïf - nel senso accademico del termine - nei confronti dell'oggetto del suo studio.
Lasciate da parte le divagazioni più puramente rock e fusion dei suoi Moraine e Iron Kim Style, l'approccio di Rea alla ricerca passa inevitabilmente tra gli impervi territori del nō, del gagaku giapponese, delle armoniche tibetane, dello nhã nhạc vietnamita e dello dang-ak coreano. Il rischio di combinare un pasticcio musicale è, ovviamente, sempre presente, ma l'essenza dell'album è, appunto, quella di un'opera espressionista che si limita a ripercorrere, non a rincorrere la tradizione.
L'apertura è affidata ai dieci minuti abbondanti di "Three Views From Chicheng Precipice", in cui la ripetizione di una seria di motivi pentatonici fornisce lo scenario perfetto per un'improvvisazione libera di violino, violoncello, chitarra e percussioni ispirata alla poesia "Un Fiore" del grande poeta Bai Juyi della dinastia Tang.
"Tangabata" inaugura il vero e proprio processo esplorativo di "Views..." addentrandosi nella tradizione cinese (con riferimenti nuovamente alla dinastia Tang) prima di esplodere in una rivisitazione jazz della stessa. L'enfasi è ancora sui registri bassi ma a condurre il gioco sono ora i fiati. Il flauto (incluso quello di bambù) e il clarinetto e lo shakuhachi pongono difatti l'accento su accenni di drone, sulla musica cerimoniale cui fa da contraltare l'eresia jazz del finale in cui la batteria rompe la staticità tipica del genere quasi a voler evidenziare lo strappo timbrico che ne consegue.
"Kan Hai De Re Zi (Days By The Sea)" è invece l'adattamento di un brano contemporaneo del cantante e attivista taiwanese Chen Ming-chang e si celebra di nuovo la rottura dei canoni della tradizione attraverso la lenta e inesorabile introduzione di venature blues. La metamorfosi qui è un gioco lento che lascia che l'intromissione sia colta lentamente - quasi subliminalmente - dall'ascoltatore. Da lì in poi si perde ogni traccia di Occidente e con la splendida "Aviariations On A Hundred Birds Serenade The Phoenix" c'è l'intromissione della voce di Caterina De Re, un'artista italo-australiana a tutto tondo, che rielabora questo pezzo di Opera cinese chiaramente ispirato a Oliver Messiaen, in maniera del tutto selvaggia e originale. È un tripudio di suona (l'oboe cinese), di canto p'ansori coreano, kalimba e accenni di musica del Sichuan.
Chiude l'album un omaggio alle montagne dello Yunnan attraverso la rivisitazione di un canto tradizionale della regione ("Bagua - Eight Diagrams") con l'aggiunta di strumenti giapponesi: non una scelta arbitraria ma un riferimento al doloroso capitolo dell'occupazione nipponica nella Seconda Guerra Mondiale.
"View From The Chicheng Precipice" è un atto d'amore nei confronti dell'Asia e della Cina in particolare. L'Occidente appare e scompare all'orizzonte ma la sua è una presenza discreta, quasi colpevole, che cerca il confronto col drammatismo cerimoniale per poi venire sopraffatto dalla solenne armonia delle linee e della melodia.
Dennis Rea compie un piccolo capolavoro che ha poco della moderna world music proprio perché la sua è world music. Il suo non è filologismo ma più semplicemente un omaggio ad occhi chiusi; finché la realtà resterà al di fuori, non c'è pericolo di restare delusi.